Criminologa e ricercatrice, Lorena Piras racconta il proprio lavoro e la ricerca sui fascicoli di archivio tra cambiamenti storici, giuridici e nel sentire comune in un percorso di oltre un secolo
Tre volte la settimana Lorena Piras, criminologa, 45 anni, sassarese, si presenta al posto di guardia del carcere di Bancali, a metà strada tra Sassari e Porto Torres dove, dopo l’identificazione e il controllo dei documenti, entra con le colleghe del Centro Ascolto Uomini Maltrattanti Nord Sardegna. Hanno appuntamento con detenuti che aderiscono al percorso su base volontaria e che scontano pene per reati che vanno dai maltrattamenti in famiglia, alle violenze, allo stupro, all’omicidio. Anzi, al femminicidio, reato che in questi ultimi anni ha fatto registrare un allarmante incremento di casi e il coinvolgimento nelle violenze anche dei figli della coppia.
Lorena, mi sembra complicato convincere queste persone ad ammettere di aver sbagliato e a non ripetere l’errore. É così?
Non c’è dubbio. Il nostro obiettivo è che la persona prenda coscienza di sé e del proprio agito. La gran parte dei detenuti ammessi ai colloqui con gli operatori non si mette in discussione né si assume responsabilità per le violenze compiute nei confronti di mogli e fidanzate in contesti che spesso coinvolgono anche figli. Ma è difficile.
Negano di essere colpevoli?
Non solo, accusano le vittime di averli spinti con il loro comportamento a compiere atti di violenza. “Lei mi ha tradito”, oppure “non lavora e non si occupa della casa”, “la famiglia è tutta sulle mie spalle ma lei non era mai contenta”. Un tentativo di legittimare le violente reazioni che spesso si concludono con un omicidio. Qualcuno ammette: “sì, l’ho colpita ma è stata lei a provocarmi”. Colpevole ma con attenuanti.
Mi sembra una missione molto difficile da compiere
Se dovessi fare un esempio del grado di difficoltà le direi che è come usare un coltello per cercare di modellare un masso di granito. É un discorso culturale che deve essere assimilato. Noi non ci arrendiamo perché queste persone, scontata la pena, torneranno in libertà, verranno reinserite in una società che fissa diritti e doveri, dovranno rapportarsi nella comunità con colleghi di lavoro e persone con le quali possono nascere nuove relazioni affettuose.
Se con il nostro lavoro non riusciamo a rendere consapevoli questi uomini dei doveri che un rapporto, di qualunque tipo, comporta, del fatto che sposando una donna non se ne acquisisce la proprietà, che una relazione può entrare in crisi perché l’amore è venuto meno senza addossarsi colpa né da una parte né dall’altra, allora rischiamo di rimettere in libertà persone che potrebbero reiterare atti di violenza verso le donne. Sarebbe una sconfitta per tutti.
Lorena Piras ha una laurea in scienze politiche ad indirizzo politico-sociale e ha concluso alla Sapienza di Roma con il massimo dei voti un Master in Criminologia, Scienze investigative e della sicurezza. Da anni si dedica al lavoro di ricerca nell’Archivio di Stato di Sassari sui fascicoli del Fondo giudiziario e della Corte d’Assise in particolare tra l’800 e il ‘900.
Un lavoro enorme e di grande passione
Entrare in contatto con un fascicolo, senza alcuna mediazione, non può non appassionarti. Archiviare non significa mettere da parte cose vecchie ma custodire la memoria di quanto è accaduto in passato. É un modo di entrare in punta di piedi nelle vite di persone che non conosciamo. L’obiettivo però non è solo leggere la sentenza ma il piano storico che ne è all’origine descritto negli atti, sapere come e perché il giudice è arrivato a decidere la colpevolezza o l’assoluzione di una persona.
Ci descriva alcune storie che l’hanno colpita in modo particolare
La più antica risale al 1823. É la storia di una bambina di 5 anni, figlia di una prostituta, violentata da un seminarista che si occupava della questua per l’Ospedale degli Incurabili che sorgeva nei pressi di San Pietro, alla periferia di Sassari. Al processo l’uomo si difese sostenendo che la bimba l’aveva sedotto, invitandolo esplicitamente ad avere un rapporto sessuale con lei. Stiamo parlando di una bambina di 5 anni, ricordiamolo. Bene, durante il dibattimento l’avvocato della difesa ricorda che la bambina è nata da una prostituta e che era quindi in lei connaturato avere nei confronti degli uomini atteggiamenti espliciti.
Dal carcere il seminarista scriverà alla madre della bimba che ormai non sarebbe più diventato prete, tanto valeva sposare la bambina, considerato che l’aveva svergognata. La madre rifiutò la proposta. E il giudice, sconfessando le tesi della difesa, ricordò a tutti che l’imputato era il seminarista e non la mamma, e lo condannò a 10 anni di reclusione.
E la seconda?
Risale al 1906 e si svolge nel centro storico di Sassari. Lauretta è una giovinetta che crede di aver trovato l’amore della sua vita. Ma il giovane con cui amoreggia, Vincenzo, do averla posseduta la lascia per un’altra donna che poi sposa. Così Lauretta si trova, sedotta e abbandonata, ad attendere il momento migliore per consumare la sua vendetta. Il giorno delle nozze, Lauretta si nasconde in un portone che affaccia sulla strada dove il corteo nuziale dovrà passare. Coglie l’attimo, sbuca dal portone con un coltello in mano e colpisce Vincenzo una sola volta, fatale, al fianco. Morirà qualche giorno dopo di setticemia.
Al processo Lauretta risponde al giudice che le chiede perché abbia commesso un delitto così grave dicendo: “Non m’importa che Vincenzo sia morto. A me ha tolto l’onore che ritengo più importante della vita”.
Venne condannata a 4 anni di reclusione per omicidio, senza alcuna aggravante di premeditazione.
Ce n’è anche una terza che vale la pena conoscere?
Si, risale al 1940 e si svolge nella colonia all’aperto dell’Asinara. Una ragazzina di 13 anni viene violentata da una guardia carceraria. La vittima ne parla con il padre che rintraccia lo stupratore a cui propone un matrimonio riparatore. Gli fa firmare un documento in cui la guardia si impegna a sposare la ragazzina. A distanza di un anno il responsabile della violenza non ha ancora mantenuto l’impegno assunto. Non ci sono altre discussioni. Il genitore lo denuncia all’autorità giudiziaria. Pochi mesi dopo i due si sposano e la condanna viene sospesa perché il reato è estinto. Ingiustizia è fatta.
“Questo fascicolo – ricorda Lorena Piras – è un esempio del significato che veniva dato ad atti di violenza nei confronti delle donne. Nei fascicoli consultati ho trovato tante storie simili. La difesa della persona non era considerata come un atto di giustizia nei confronti della vittima di uno stupro. La donna contava ben poco, nulla le sue sofferenze, nulla il suo corpo violato con la forza da un uomo. Andava difesa non per un senso di giustizia ma per non esporre la vittima e la sua famiglia al giudizio della società”.
Lei ha partecipato anche al progetto di ricerca e riordino dei fascicoli dei detenuti custoditi negli archivi delle carceri dell’Asinara e di Tramariglio finanziato dall’Unione Europea?
É stata un’esperienza esaltante cominciata il 5 marzo 2012, una data di avvio che coincideva casualmente con l’anniversario della chiusura ufficiale della colonia penale di Tramariglio. Prima dell’avvio dei lavori di ricerca dei fascicoli e del loro riordino, l’area educativa di Bancali e Alghero scelse sette detenuti con i requisiti per l’ammissione al lavoro esterno disposti ad impegnarsi nel progetto. Tutti frequentarono un ciclo di lezioni formative, tenute da un archivista e dal direttore dell’Archivio di Stato di Sassari, poi di fatto la squadra cominciò il lavoro sul campo. Lavoro complesso e faticoso. I fascicoli quasi mai erano conservati in modo diligente, tutt’altro, erano per lo più accantonati in scantinati umidi e polverosi. Il lavoro era articolato in diverse fasi: recupero, catalogazione e spolveratura della documentazione archivistica, la loro sistemazione in scatole di cartone e il trasferimento presso il centro di digitalizzazione di Tramariglio.
Lorena, comprendo che l’enormità del lavoro che avete portato a termine meriterebbe un’intervista a parte. Se la sente di sintetizzare i risultati di questo progetto?
Una parte consistente della documentazione storica delle ex colonie penali sarde è stata raccolta nel volume “Le carte liberate”, edito da Carlo Delfino, curato da Vittorio Gazale e Stefano Alberto Tedde, e presentato al pubblico nella sala riunioni del carcere di Bancali alla presenza dei detenuti che hanno partecipato al progetto. Alcuni di loro sono tornati in libertà. Speriamo trovino qualche opportunità di lavoro.
E poi ancora un altro libro che ha le sue origini nel ritrovamento del manoscritto di un detenuto a Tramariglio nel 1940. Quel diario è stato trascritto ed è diventato una pubblicazione, sempre edita da Delfino, dal titolo “Matricola 555: perché sparai alla mia amante”. A dimostrazione del fatto che gli stalker sono sempre esistiti.
Una curiosità?
Delle storie contenute nei fascicoli sui quali abbiamo lavorato, il cantautore sardo Piero Marras ne ha selezionato un certo numero trasformando in canzoni 17 storie che ha raccolto in un cofanetto dal titolo “storie liberate” contenente due Dvd e altrettanti libretti con il testo delle canzoni. Piero Marras, parlando della sua esperienza in un contesto a lui sconosciuto, ha detto: “Ho visto un mondo che ho voluto liberare dall’oblio, tante storie marginali, solitudini disperate a cui la musica poteva restituire la libertà e rendere in qualche modo giustizia”.
Gibi Puggioni